di Daniela Toschi

Estratto dal volume “I Registi della Mente” a cura di I. Senatore, Falsopiano editore, Roma, 2015. pp. 112-142.

Un incubo

Quando frequentava il primo anno della Todd School for Boys a Woodstok, Illinois, il giovane Welles sognò di trovarsi davanti a un castello che aveva la forma di una torre di Babele ed era circondato da una scala elicoidale. Iniziò a salire, ma alla fine della prima rampa, davanti a una stanza, lo attendeva una visione raccapricciante: un uomo morto, con le braccia incrociate sul petto, ricoperto di fogli di giornale e un sigaro spento tra le labbra. Welles continuava a salire, fino alla vetta, e alla fine di ogni rampa, davanti a ogni stanza, si ripeteva la stessa visione.

Orson Welles era un ragazzino di undici anni quando ebbe quest’incubo, kafkiano come ogni incubo. Ne fu colpito al punto che i giorni seguenti divenne depresso e si isolò dai compagni. A un amico confidò che questo sogno gli aveva reso chiaro che aveva commesso il peccato imperdonabile. Non disse mai quale fosse quel peccato.

Alcuni sogni sembrano situarsi in un crocicchio dove passato e futuro si incontrano e questo offre un’icona perfetta di quelle che saranno la vita e la car- riera di Welles: la salita a spirale, interrotta a ogni rampa da un figura spavento- sa, sembra presagire gli ostacoli di ogni genere con cui si scontrò nel tentativo di portare a termine i suoi film (la burocrazia farraginosa degli studios e gli avversari politici; la mancanza di finanziamenti e le difficoltà in fase di commercializzazione e distribuzione; la malevolenza di magnati della stampa e la maldicenza dei critici).

Dopo precoci e incalzanti successi, grazie ai quali fu considerato il più brillante regista americano, gran parte delle sue produzioni trovò sbarrata la strada verso la realizzazione; ciò, oltretutto, gli guadagnò la fama di essere incostante e di non portare a termine ciò che iniziava, scoraggiando ulteriormente gli investitori. Continuò tuttavia a salire fino alla vetta affrontando la scoraggiante visione che lo attendeva ogni volta: per qualche motivo da indagare, “Welles non poteva o non voleva arrendersi”.

Morì all’improvviso, una notte del 1985, chino sulla macchina da scrivere. Nei giorni precedenti, dopo estenuanti trattative portate avanti su vari fronti, aveva visto svanire la possibilità di concretizzare alcuni film su cui aveva lavorato energicamente e di cui ci restano gli script.

Ci sorprende, in questo sogno, la presenza del dead man, un guardiano spaventevole che impedisce l’accesso a ogni stanza e vanifica la fatica dell’ascesa: ricorda il guardiano della parabola Di fronte alla legge, con la quale, molti anni dopo, Welles avrebbe incorniciato The Trial:

“Do not attempt to enter without my permission”, says the guard. “I’m very powerful. Yet I am the last of all the guards. From hall to hall, door after door, each guard is more powerful than the last.

Ci colpisce anche l’intenso vissuto di colpa suscitato da quest’immagine terrifica in un bambino certamente innocente. Il tema della colpa, si sa, è centrale nell’opera di Kafka. Torneremo sul tema della colpa in Welles, chiedendoci se il guardiano, il dead man del sogno, non sia anche un guardiano interno: perché, in questo crocicchio dove si situano i sogni, oltre al passato e al futuro anche mondo interno e mondo esterno si incontrano e si riflettono reciprocamente, in uno di quei giochi di specchi e rifrazioni che piacevano tanto a Welles (ricordiamo gli specchi di Citizen Kane e di La signora di Shangai) e che hanno dato del filo da torcere agli esegeti kafkiani: le opere di Kafka, si sa, fanno scivolare pericolosamente da un piano interpretativo all’altro, e chi le affronta si trova perso tra i piani infiniti di una struttura frattalica.

Welles sognava come Kafka scriveva? Tutti sogniamo così. Ma Kafka e Welles hanno voluto utilizzare il linguaggio del sogno e dell’incubo per descrivere esperienze di “risveglio” che lasciano attoniti, spaesati, in preda all’orrore nascosto nella quotidianità.

Valeva la pena soffermarsi su un sogno infantile di Welles di cui, tra l’altro, lui non ha mai parlato? E che potrebbe non essere altro che un inganno della memoria di quel tale Paul Guggenheim, suo compagno alla Todd School di Woodstock, che lo ha raccontato molti anni dopo a Simon Callow. Forse (vero o falso che sia non importa, F for fake8 insegna) ne valeva la pena, in quanto esso pare preannunciare che un giorno, più o meno a metà di quella salita a spirale, Kafka e Welles si sarebbero incontrati per “comprendersi a morte”  nel corso di un dialogo immaginario dal quale sarebbe scaturito The Trial.

“Ci sono elementi, che di certo sono coincidenze, che sembrano confermare la veridicità di questo sogno. Un particolare curioso compare nella prima scena di Citizen Kane: un’infermiera, la cui immagine è deformata dalla palla di vetro infranta, accorre nella stanza di Kane, si avvicina al suo letto e fa un unico gesto, dal quale lo spettatore comprende che l’uomo, le cui labbra hanno appena pronunciato la parola famosa, Rosebud, è morto: si china su di lui, gli prende le braccia e gliele incrocia sul petto. Eccole, le braccia conserte del dead man. Di norma, nel linguaggio cinematografico, per far capire che un personaggio è morto gli vengono abbassate le palpebre.

E, ancora, questa scena si svolge in un castello: il bizzarro, eccessivo castello di Xanadu, che incombe sul protagonista morente come un patetico immenso monumento funerario; si collassa, anzi su di lui, grazie al movimento della macchina da presa. Prima dal basso verso l’alto, lentamente, in un movimento ascensionale. Poi dall’esterno verso l’interno, in un gioco di sovrapposizioni di immagini, girando a spirale intorno al parco fino alla camera, al letto e ai vortici di neve contenuti nella palla di vetro che sta per cadere dalle mani di Kane.

Coincidenze. Rischi che si corrono a giocare coi sogni.”

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Note Bibliografiche

Daniela Toschi, psichiatra e psicoterapeuta, si è specializzata in Psichiatria presso l’Università degli studi di Pisa. Dal 1988 al 2012 ha svolto la sua attività professionale come dirigente medico presso la U.O. Psichiatria della Valdinievole (Azienda U.S.L. 3, Pistoia). Dal settembre 2012 al giugno 2016 ha svolto la stessa attività presso l’Azienda U.S.L 12, Versilia. I suoi principali interessi sono la storia della psicoanalisi, la psicotraumatologia e i legami tra creatività e spettro traumatico. Attualmente svolge attività di Consultancy presso Bridging Eastern and Western Psychiatry ed è Socia della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferencz. Si è dedicata,  oltre ad articoli scientifici, anche a narrativa di viaggi  (Piste di Sabbia, viaggi in Africa Meridionale, Titania editrice, 2001), poesia (Eterna Camelot, Baroni ed. 2004), un lavoro teatrale (Il Fuoco egli Estinti, coautrice Bianca Stefania Fedi) e romanzo fantasy (Surkafkiano,  coautrice Bianca Stefania Fedi).

Categorie: Sogni d'Autore

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