di  Sergio Di Giorgi *

Finalmente, ho ri-sognato mio padre. E questa volta, per fortuna, l’ho incontrato  giovane (non giovanissimo, avrà avuto mettiamo quarant’anni) , alto (più alto di quanto fosse nella realtà),  muscoloso (anche se né lui né io lo siamo stati mai per davvero, muscolosi intendo). Anche io ero giovane,  più o meno come lui, e l’incontro aveva luogo in una palestra (un tipo di posto che non ho mai molto frequentato in vita mia, anzi diciamo che ho sempre attentamente evitato…ma guarda caso non in questo periodo). Non ci siamo detti molto in quel frammento che ricordo, ma, insomma, l’incontro aveva una sensazione di piacevole sorpresa e quel sogno l’ho preso come un buon auspicio (anche rispetto ad alcune mie difficoltà del momento…).

Questo sogno è assai recente, l’ho fatto pochi giorni prima della scomparsa Ermanno Olmi. Non lo avevo mai conosciuto di persona, ma era il regista italiano che forse stimavo di più, mi sentivo come affezionato a lui. Una volta lo avevo visto da vicino, in una bella cascina-agriturismo sul Ticino, credo fosse andato a pranzo, c’era tanta gente attorno a lui e non mi ero sentito di avvicinarlo. Ero però alla Mostra di Venezia, nel 2008, quando ricevette il Leone d’oro alla carriera. Accanto a lui (e certo con il suo consenso) c’era Adriano Celentano, nei fui meravigliato e anche un po’ contrariato (tanto lo ho amato come cantante quanto sempre detestato come show-man,  specie televisivo),  E, soprattutto, mi resta il ricordo vivido ed emozionante  di una serata magica e allo Strehler di Milano, nel 2012, lui e Peter Brook a parlare  di teatro e di vita, come due cose che sono un’unica cosa.

Ermanno Olmi (1931-2018)

Allo Strehler di Milano Ermanno Olmi e Peter Brook, ottobre 2012 (foto Sergio Di Giorgi)

).

 

 

 

 

 

 

 

Certo, i padri se ne vanno, e  i nonni prima di loro, lasciando noi figli maschi sempre più soli, a inseguirli nei sogni, tra rimorsi e rimpianti, per non aver avuto il tempo per parlare davvero e fino in fondo, di tante cose importanti, con loro.. Le nonne e le madri spesso restano più a lungo, ma (sempre per noi figli maschi) in fondo non è la stessa cosa. Ermanno Olmi (classe 1931), scomparso il 7 maggio scorso a quasi 85 anni,  aveva il viso di un padre buono, e anche quello di un nonno buono…Chi come me, per ragioni anagrafiche è stato ed è ancora “figlio del cinema” e del suo secolo, il ‘900, era stato sempre rassicurato da registi come Olmi, da quello  sguardo pieno di umanità e comprensione come pure dal  suo sguardo  cinematografico, pure esso così fortemente umano, antropomorfo e antropocentrico, per dirla con un altro, forse più altero, nonno del cinema, il grande Luchino Visconti.

Questo è accaduto, quasi anno dopo anno,  per sessant’anni, dal 1958 (data del suo primo lungometraggio Il tempo si è fermato, ma in realtà anche da prima, dai primi documentari datati 1953). Olmi ci ha raccontato la nostra storia, quella dell’Italia del dopoguerra, del miracolo industriale, del boom economico, la permanenza e la resistenza della civiltà  contadina, la storia antica e le favole, giù giù sino ai suoi ultimi film parabola, sulla natura, la spiritualità, , l’Altro da noi, la guerra (e mi riferisco qua in particolare ai due suoi ultimi lungometraggi, Il villaggio di cartone del 2011 e Torneranno i prati del 2014 ma anche al  suo testamento, Vedete sono uno di voi, il bellissimo documentario sul cardinale Martini – ma il cui titolo si addice alla perfezione anche  al regista bergamasco.

Ma la faccia di Olmi, a me ricorda anche  quella di un altro grande regista francese (anzi per la precisione marsigliese…) da me assai amato, certo ben più giovane (nato nel 1953, appunto quando Olmi ventiduenne iniziava a dirigere film) e per fortuna ancora vivente e operante, il sanguigno e sempre autenticamente “di sinistra” Robert Guédiguian. La sua ultima fatica La casa sul mare (La villa nell’originale) è forse ancora su qualche schermo (se non l’avete fatto recuperatelo subito, possibilmente in versione originale, anche se non siete francofoni,  per godere a pieno della  grande interpretazione dei suoi straordinari interpreti , dalla moglie e musa Arianne Ascaride  a Jean-Pierre Darroussin e Gerard Meylan, il nucleo duro della sua ‘famiglia’ di sempre) .Ho parlato qua di questo bellissimo film  http://www.cinecriticaweb.it/film/la-casa-sul-mare/  che mi aveva fatto pensare alla favola di Olmi del 2011 Il villaggio di cartone.

Entrambi i film parlano in fondo (anche) di quelli che diciamo migranti (ed Erri De Luca  chiama “acrobati dell’oggi”), ma Guédiguian lo fa forse più in prima persona, attraverso la storia di un padre morente, dei suoi tre figli (due maschi una femmina) al suo capezzale, tra amore filiale e interesse economico. Un film che è come un continuo flashback verso l’infanzia (passando per la rievocazione della gioventù dei protagonisti attraverso una  fantastica sequenza di Ki lo sa?, un suo film sin qui assai poco conosciuto del 1985), sino all’incontro con tre piccoli (ancora due maschi e una femmina) sbarcati da molto lontano, portatori di un’altra lingua, di un’altra cultura, ma delle stesse emozioni, sulle aspre bellissime rocce delle calanques mediterranee. Non dico altro del film, se non che a compiere,  sullo schermo come spesso nella vita,  il miracolo è sempre l’amore e il perdono (dei nostri genitori e fratelli, e di noi stessi, ma anche il perdono e la remissione di ogni debito a  ogni credo, religioso o ideologico, assoluto e vendicatore).

Un frame de La casa sul mare di R. Guédiguian

Il regista Robert Guédiguian

Quel padre morente di Guédiguian, i volti di Guediguian e di Olmi, il sogno di mio padre, giovane come me in quel frangente,  mi fanno oggi pensare a un altro sogno, di un altro grande artista, che forse tutti (e anche io) avremmo  voluto come un fratello maggiore (che non ho avuto), Antonio Tabucchi. Penso al sogno –  che viene raccontato nel suo celebre, straordinario romanzo Requiem, Feltrinelli (1991),  sogno peraltro strettamente legato alla genesi stessa del romanzo – che Tabucchi rivive e mette in scena da par suo nel bellissimo, emozionante racconto-saggio  “Un universo in una sillaba”,  con cui si apre Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori (Feltrinelli, 2003), Si tratta di un sogno, ovviamente ambientato a Lisbona,  che è una vera e propria “evocazione” della figura paterna che vi appare ventenne (nella realtà, come Tabucchi ci dice, il padre dello scrittore era morto alcuni anni prima per un tumore alla gola), mentre  il figlio ha con ogni probabilità l’età, quasi cinquanta anni, in cui scriveva Requiem. “Ma non si trattava di una semplice inversione di ruoli: avevo la certezza che lui era mio padre e allo stesso tempo la sensazione che fosse mio figlio, così’ come sapevo con certezza di essere suo figlio e allo stesso tempo avevo la sensazione di essere suo padre”.

Così, da padre in figlio, tra veglia  e sogno, luce e tenebra, voce e silenzio,  certezza e incertezza, paura e coraggio,  tra gli incessanti “incontri e agguati” del dolore e della gioia,   ci ritroviamo, senza in fondo aver mai chiesto nulla, ad avanzare verso l’uscita, provvisoria forse,  dal nostro palcoscenico. Esaltati, angosciati, comunque stremati dalla continua, funambolica altalena degli opposti, dove, inconsapevoli a volte, cercavamo ogni giorno quella  promessa d’armonia che è nel creato, tra lo yin e lo yang, come nella vera poesia, nel grande cinema, ma anche in ogni vita che, senza mentire come volgari impostori di noi stessi, potremo confessare d’aver vissuto veramente.   Nei campi di battaglia (per la sopravvivenza) dell’età adulta, quando non c’erano più i campi da gioco, i  cortili o gli oratori dell’adolescenza, ma le domeniche ci sembravano, miseri noi, sempre troppo lunghe e inconcepibilmente azzurre (“Tu sei destinato a un grande lunedì! ben detto, ma la domenica non finisce mai”, ci aveva già ammonito Kafka in uno dei suoi folgoranti aforismi…), abbiamo lasciato sfuggire tra le  mani la sabbia preziosa del tempo, del suo qui, del suo ora, di ogni  “eterno istante” che è l’amore,  come ci aveva spiegato Manuel Scorza. Ma adesso, in quelle pause in cui lo ritroviamo,  il tempo, come un vecchio amico perduto, ecco che ci capita di  riascoltare quelle voci distanti ma sempre presenti. E’ allora che inseguiamo nei nostri sogni, nei nostri film, e  libri, i volti di chi ci fu caro.

P.S. Dedico queste note  a Viviana Nicodemo e Milo De Angelis  per le emozioni che mi hanno donato in questi mesi.

  • critico cinematografico, progettista e curatore eventi culturali e iniziative formative. www.sergiodigiorgiwordpress,com

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